Oggi molti conoscono la laparoscopia come la "chirurgia dei tre buchini": cioè, la identificano con alcuni interventi chirurgici, come la colecistectomia o l'appendicectomia laparoscopiche, che risultando minimamente invasivi per il paziente consento un decorso postoperatorio rapido, con tempi di ricovero e convalescenza ridotti.In realtà la laparoscopia nasce, e muove molti dei suoi passi, come metodo di diagnosi: solo negli ultimi 30 anni ha conosciuto una diffusione ubiquitaria come modalità di accesso chirurgico.
Sebbene sia un metodo di diagnosi sicuramente più invasivo di altre tecniche sofisticate di cui oggi disponiamo (TC, RMN...), necessitando in genere di una sala operatoria e di un'anestesia generale, essa ha degli ambiti ben precisi ed arriva dove le altre metodiche non arrivano: ad esempio, permette di fare diagnosi differenziale quando il sospetto diagnostico è vago e la condotta terapeutica incerta (caso tipico: dolore al fianco destro in una giovane donna con esami negativi, sarà un'appendicite, un problema ovarico, un'infiammazione dell'ultimo segmento dell'intestino tenue, un diverticolo... ?), di fare prelievi bioptici, di procedere all'intervento chirurgico immediatamente se necessario.
L'accesso chirurgico all'addome per esplorarlo, quando è impossibile giungere altrimenti ad una diagnosi, è una pratica antica quanto la chirurgia; fino a tempi recenti, quest'accesso ha condizionato l'esecuzione di tagli di dimensione cospicue sulla superficie addominale, le cosiddette laparotomie esplorative, ancora molto usate. Ma oggi disponiamo di attrezzature laparoscopiche molto sofisticate, che permettono di accedere alla cavità addominale con ferite di piccolissime dimensioni (5 mm o meno); per cui, l'invasività della procedura è veramente ridotta al minimo, tanto che la laparoscopia esplorativa dovrebbe essere tenuta inconsiderazioe, al posto dell'ormai sorpassata laparotomia esplorativa, da tutti i medici.